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La conservazione del posto di lavoro fuori dai comparti ARAN, tra dimissioni e aspettativa 

di Elia Pirone

Il dipendente pubblico, già assunto a tempo indeterminato presso la pubblica amministrazione, potrebbe sentire, nell’arco della sua vita lavorativa, l’esigenza di intraprendere una nuova esperienza. I modi per farlo sono diversi, in questo caso non ci occuperemo delle mobilità esterne, degli interscambi e dei comandi, ma ci focalizzeremo su quanto può succedere in caso di vincita di un nuovo concorso pubblico.

Più nel dettaglio, spesso viene chiesto che differenza ci sia tra Pubblica amministrazione “ARAN” e Pubblica amministrazione “non ARAN”. In termini maggiormente tecnici, questo equivale a citare l’area del pubblico impiego oggetto della cosiddetta privatizzazione e quindi soggetto alla contrattazione collettiva (gli enti che sottoscrivono, insieme alle Organizzazioni sindacali, un Contratto collettivo nazionale di lavoro) e, dall’altro lato, gli enti ancora soggetti a un regime di diritto pubblico, ovvero non privatizzati.

In questi casi le differenze sono notevoli e meritevoli di attenzione da parte di tutti i dipendenti che vorrebbero licenziarsi per andare altrove. Ora, in base ai CCNL dei comparti privatizzati (scuola, sanità, enti locali ed enti centrali) il dipendente dimissionario mantiene il diritto alla conservazione del posto di lavoro “per un arco temporale pari alla durata del periodo di prova formalmente prevista dalle disposizioni contrattuali applicate nell’Amministrazione di destinazione”.

Questo significa che, in caso di recesso di una delle due parti (dipendente o amministrazione) durante il periodo di prova, il lavoratore può rientrare – a richiesta – nell’amministrazione da cui proveniva. Ciò avviene tassativamente, sempre che la richiesta venga inoltrata dall’interessato, ovvero senza margine di discrezionalità da parte del precedente Ente, che è quindi tenuto a riassumere il suo ex dipendente.

Peccato che questo non si applichi – secondo l’ARAN, che ha emesso nel 2023 il parere CFC 115a – agli enti dei comparti non privatizzati, quelli citati poco sopra. Organi costituzionali, Autorità indipendenti, polizia, vigili del fuoco, polizia penitenziaria, solo per fare qualche esempio, non garantiscono la conservazione del posto al dipendente che proviene dai ranghi della PA privatizzata. Il parere riporta, infatti, che tale diritto è riconosciuto “presso le Amministrazioni – anche di diverso comparto – rientranti nell’ambito applicativo del diritto del lavoro contrattualizzato, così come delineato ai sensi dell’art. 1, comma 2, del D. Lgs. n. 165/2001”. “Risultano, pertanto, escluse tutte quelle Amministrazioni i cui rapporti di lavoro sono retti dal diritto pubblico”.

Questa è sicuramente una brutta tegola per il dipendente pubblico desideroso di approdare tra le fila della PA in regime di diritto pubblico (che, peraltro, tendenzialmente paga molto meglio). Ma vediamo una possibile “scappatoia”. L’art. 23-bis del sopra citato d.lgs. 165/2001, infatti, stabilisce che “i dipendenti delle pubbliche amministrazioni (…) sono collocati, salvo motivato diniego dell’amministrazione di appartenenza in ordine alle proprie preminenti esigenze organizzative, in aspettativa senza assegni per lo svolgimento di attività presso soggetti e organismi, pubblici o privati, anche operanti in sede internazionale, i quali provvedono al relativo trattamento previdenziale”.

Da ciò si evince che possano essere considerati “soggetti pubblici” anche quegli Enti della PA non privatizzata, purché provvedano al trattamento previdenziale dei dipendenti. Attenzione però: questo tipo di aspettativa – che non è un dimettersi – può anche essere negata dalla PA di provenienza, dietro motivato parere. Non si tratta, quindi, di un diritto assoluto ma una strategia che può essere comunque tentata.

di Elia Pirone

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